Bicentenari - Napoleone e l'Elba, la strana fuga / 2

di BRUNO MISERENDINO*

“Signori vi annuncio la mia partenza. Vi lascerò questa sera stessa… vi voglio ringraziare per il vostro affetto, non vi dimenticherò mai... Se l’isola venisse attaccata difendetela fino alla morte…vi affido ciò che ho di più prezioso: mia madre e mia sorella, è questa la miglior prova della fiducia che ripongo in voi…” Ecco le ultime parole famose di Napoleone all’Elba. Dopo soli dieci mesi, Il suo dorato esilio sull’isola toscana finisce. Parla ai maggiorenti dell’isola, il 26 febbraio del 1815, dopo aver fatto le ultime nomine e affidato il governo del suo Principato a un Reggente, il Generale Lapi.

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Era tutto pronto da giorni, bagagli, documenti, brigantino con provviste per tre mesi, guarnigione di scorta. Tutti sapevano che stava per andarsene, e infatti quando quella sera lui scende la scalinata che dalla Villa dei Mulini conduce al porto, voltandosi di tanto in tanto verso la residenza che l’aveva ospitato, una piccola folla inizia a radunarsi. E’ buio, qualcuno lo saluta augurandogli nuove vittorie. I fedelissimi lo scortano in silenzio, muti ed emozionati, come lui. La madre Letizia, la tanto amata Madame Mère, e la sorella Paolina l’hanno  abbracciato tra le lacrime un attimo prima. Ma anche sostenuto. Gli hanno dato soldi e gioielli e la madre, che pure ha amato l’isola d’Elba, lo conforta: “Il cielo non permetterà che voi moriate qui di veleno, né in un giaciglio indegno di voi, ma solo con la spada in mano, andate dunque incontro al vostro destino, voi non siete fatto per morire su quest’isola”. Adesso, mentre lui scende la scalinata, madre e sorella lo guardano con i fazzoletti in mano dalla finestra della residenza.  Loro staranno ancora sull’isola per qualche tempo, quasi come ostaggi, mentre Napoleone va di nuovo incontro al suo destino di guerra e di morte. I Cento Giorni e Waterloo incombono, l’Elba non la vedrà mai più.  La rimpiangerà vicino alla morte, a Sant’Elena: “Quando partii dall’amata Elba, c’era una pioggia leggera. Quanto vorrei che scorresse oggi su di me, quanta vita mi darebbe ancora…”

Fu tutto molto strano, quel 26 febbraio, epilogo di un rapporto altrettanto strano e ambiguo tra l’Imperatore e l’isola che aveva scelto per l’esilio. Ci aveva messo l’anima per migliorarla, certo sognava di tornarci in visita da Imperatore di Francia e d’Italia, ma era chiaro, come confermava la madre, che non voleva morire lì. Come tutto si poteva dire, quella sera, tranne che la sua fosse una fuga. Come era potuto succedere che l’esiliato più osservato e controllato d’Europa, il combattente che il congresso di Vienna voleva togliere di mezzo spedendolo alle Azzorre o Sant’Elena, eludesse così facilmente i controlli del colonnello inglese Campbell e dei suoi uomini?

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 Alle porte del bicentenario e delle celebrazioni che si svolgeranno un po’ ovunque, da Parigi alla Corsica, all’Elba a Sant’Elena, il mistero resta. Tanto da autorizzare perfino il sospetto che Napoleone sia stato fatto fuggire deliberatamente. Forse per catturarlo in mare e toglierlo di mezzo prima di altre guerre? C’è ancora da studiare. Eppure le testimonianze sono tante e i fatti non sono misteriosi. A cominciare dal primo, indiscutibile: il mitico colonnello inglese Campbell, che doveva controllare, in quei giorni era in Toscana, forse a Livorno, in visita alla sua amante. Si fidava di Napoleone e dei suoi piagnistei. “Io non penso a nient’altro che alla mia piccola isola – gli ripeteva l’Imperatore -  io non esisto più per il mondo, sono un uomo morto…”.

Questo pianto che non avrebbe incantato nemmeno un bambino era iniziato a settembre del 1814, quando già alcuni rapporti degli austriaci avevano segnalato che Napoleone stava reclutando altri uomini per la sua piccola armata elbana. Ne aveva già 800, a che gli servivano? Nessuno sembrava o voleva capirlo. Campbell gliene aveva chiesto conto, ma lui, l’imperatore, aveva risposto scrollando le spalle: “E’ vero, ma è ingiustificato l’allarme, io non ho soldati per presidiare tutti i villaggi e le fortificazioni, quindi ne devo ingaggiare di nuovi”. Il colonnello inglese era così ingenuo da prendere per buona la giustificazione e scrivere sul diario: “Comincio a credere che egli sia completamente rassegnato al suo ritiro…” Persino il Governatore di Livorno, che considerava Napoleone un vicino “troppo temibile e ingombrante”, si era convinto lungo la strada che l’Imperatore un tempo spauracchio dell’Europa si trovava bene all’Elba e ci sarebbe rimasto a lungo. Questa allucinazione collettiva proseguì per molti mesi ma divenne cecità totale agli inizi del 1815, quando tutto precipitò e Napoleone si convinse che doveva prendere in contropiede i suoi nemici.

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(La tomba di Napoleone all' Hôtel des Invalides)

E’ la storia, nota, di un paradosso. Da un lato  Metternich e tutti i principali attori del Congresso di Vienna, entrato nel vivo all’inizio del 1815, volevano interrompere il dorato esilio di Napoleone, per spedirlo alle isole Azzorre o a Sant’Elena, in modo da sbarazzarsi una volta per tutte dell’ingombrante personaggio. Dall’altro nessuno si rendeva conto, nonostante i segnali che venivano dall’Elba, che l’Imperatore stava preparando le valigie per tornare al centro della scena. La notizia che Napoleone aveva lasciato il suo esilio toscano si abbattè sui protagonisti del Congresso provocando sgomento e irritazione. L’Elba tornò con un clamore mai visto su tutti i rotocalchi e i giornali dell’epoca, sui manifesti, sulla bocca di tutti, popolo, principi, ministri, zar, re e regine. Tra l’altro la notizia mise in allarme tutte le autorità di polizia, non solo in Francia e in Europa, ma anche in Italia, perché molti patrioti o aspiranti patrioti erano venuti all’Elba chiedendo a Napoleone di assumere su di sé la causa dell’unità italiana. Per la verità l’Imperatore non aveva preso alcun impegno, aveva ringraziato della fiducia ma vedeva la possibilità molto remota. Però la notizia che era scappato dall’esilio aveva creato speranze, e adesso molti mettevano in relazione la sua fuga con quel progetto. Metternich e Talleyrand, quelli che da tempo volevano sbarazzarsi di Napoleone, non faticarono a convincere tutto il Congresso, a cominciare dagli inglesi, in fondo colpevoli di quella fuga, che serviva subito un cordone sanitario intorno all’imperatore guerrafondaio, ovunque egli fosse.

 Già, ma dove era Napoleone? In mare, certamente, ma con quale rotta? Napoli, la Corsica o la Francia?  Allora non c’erano telefoni, satelliti, gps e nemmeno il telegrafo. Le notizie arrivavano se qualcuno le portava fisicamente, a cavallo, in carrozza, con le navi, di bocca in bocca, con i segnali di fumo, fino a chi di dovere. Il fatto che all’Elba tutti sapessero e a Vienna no, o che nessuno avesse avvertito il colonnello Campbell disperso in Toscana, era perfettamente plausibile. Napoleone, a conferma che la fuga era stata preparata da tempo, appena l’ingenuo colonnello inglese si era imbarcato alla volta di Livorno aveva dato ordine di non far partire nessuna barca e nessuna nave dalla sua isola, in modo che nessuna notizia di preparativi arrivasse in continente. Da due settimane aveva preparato invece il brigantino Inconstant con cui voleva partire. Il naviglio, questo fu un vero colpo di fortuna, si era arenato vicino a Portoferraio, era stato riparato e dipinto di scuro alla maniera dei brick inglesi, in modo da non destare sospetti una volta salpati. L’aveva fatto riempire di provviste per tre mesi, aveva dato gli ordini necessari a tutto il suo piccolo esercito e alla guarnigione che l'avrebbe accompagnato in Francia, doveva solo scegliere il momento propizio.

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(Hôtel des Invalides)


La decisione era presa da metà febbraio, quando aveva ricevuto un ultimo fedelissimo, Fleury de Chaboulon che veniva, sotto falso nome, da Parigi. “La Francia è pronta ad accogliervi, il popolo detesta il Grassone (Luigi XVIII ndr)…” Ma c’erano anche altri motivi: la certezza che la moglie Maria Luisa d’Austria era ormai ostaggio di Metternich, il che aveva un significato politico chiaro, poi la paura di essere ucciso o avvelenato da qualche sicario, infine il fatto che i soldi erano finiti. Della rendita prevista dal trattato di Fontainebleau (2 milioni di franchi l’anno) non si parlava più, le finanze dell’isola erano allo stremo, i soldati rumoreggiavano. A Portoferraio ci furono delle esecuzioni di persone sospettate di essere dei sicari, lo stesso Napoleone avrebbe ucciso per errore una sua guardia, un mamelucco, temendo che fosse un attentatore, anche se sull’episodio non c’è mai stata chiarezza.  Insomma l’Imperatore, nervoso e angosciato, stava rompendo i suoi rapporti con l’isola. La luna di miele era finita e molti isolani avevano iniziato a detestarlo come tutti gli altri governanti che erano passati da quelle parti.

Così, ecco l’atto finale. Si è sempre scritto che Napoleone avesse approfittato di una festa in maschera organizzata dalla sorella Paolina per eludere la sorveglianza, ma il particolare anche se veritiero è inessenziale. Anche gli altri inglesi sapevano dei preparativi per la partenza. Napoleone è stato salutato dalle autorità e le barche hanno fatto spola con l’Inconstant per portare i soldati del seguito, sulla banchina ci sono stati baci, abbracci e pianti perché i militari lasciavano mogli, figli, amori. Insomma era un’escursione organizzata, non una fuga. Bisogna quindi immaginare la scena del ritorno di Campbell, il giorno dopo, a bordo della Partridge. Entrando in rada si accorge che l’Inconstant non c’è più , vede qualcosa di strano nell’aria, nota dei miliziani ai posti di guardia occupati in genere dai granatieri, ha un brutto presentimento. Corre verso il palazzo Comunale, residenza del Gran Maresciallo, e incontra un connazionale che gli dice: “Ma no, il Gran Maresciallo non c’è, è partito insieme all’Imperatore”.  Napoleone era già lontano, in navigazione verso la Francia, spinto da uno scirocco leggero con qualche goccia di pioggia. Era febbraio, le ore di buio erano molte, difficile inseguirlo.the-military-228026_960_720jpg


 Per la verità, c’è chi ha raccontato di un episodio che avrebbe messo a repentaglio il viaggio dell’Imperatore. Nelle stesse ore, una giovane dell’Elba che aveva trascorso la sera precedente con Jean Baptiste Lomourette, comandante della piazza di Portoferraio, era riuscita ad aggirare i divieti e arrivare a Piombino. Era stata interrogata dalla polizia e aveva spifferato tutto della partenza dell’Inconstant. Ma incappò in un fervente bonapartista, che diede a chi di dovere la notizia con due giorni di ritardo. Napoleone, ormai, era già in vista della costa francese. L’Elba era un ricordo.

Da lì in poi tutto si svolge a una velocità impressionante ed è la storia dei Cento Giorni. Una dopo l’altra, con discorsi infiammati, convince le guarnigioni di Luigi XVIII a tornare con lui. Risale la Francia città per città, fino a rivedere le guglie di Notre Dame. Rientra a Parigi in trionfo, riorganizza la Grande Armata. Dice di volere la pace ma nessuno gli crede. E così l’ennesima coalizione europea si prepara alla battaglia finale. I numeri dei suoi nemici sono soverchianti, ma Napoleone riesce a fermarli. Non a Waterloo, dove perde dopo aver rischiato di vincere. Maria Santelli, la cuoca elbana che l’aveva seguito sull’Inconstant, si prende la prima pallottola della battaglia. Lui farà un nuovo viaggio su una nave inglese, l’ultimo, fino alla sperduta Sant’Elena.landscape-3845377_960_720Elbajpg

L’Elba ritornò al Granducato e ripiombò in una storia di ordinaria povertà. Restavano i gioielli edificati da Napoleone e l’impronta indelebile del passaggio. Ma il mito restò più che altro sui libri di storia. Sull’isola si spense lentamente, fino a una sostanziale indifferenza che in realtà dura tutt’oggi, salvo qualche reminiscenza in tempi di bicentenari.  


PS. Non preoccupatevi per la carriera del colonnello Campbell. A differenza della povera cuoca elbana, che morì a Waterloo seguendo Napoleone, scrisse delle memorie e fu promosso generale.


BRUNO MISERENDINO (Nato a Roma nel 1951, inutile laurea in Storia, insegnante e poi giornalista all’Unità per 33 anni, inviato di politica per troppo tempo e per questo pre-pensionato felice. Amo la musica, anche se il violoncello non se ne accorge, alle città preferisco montagne, deserti e mare. Prima o poi andrò a vivere all’Elba. Ma devo sbrigarmi)

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