Bandiera blu a Cefalonia, e le scoperte di Luigi Necco

di MATTEO COSENZA

Perché non venite a Cefalonia? Nikoletta Kokkini, che aveva sposato Giulio Fabbricatore, un professore napoletano del Politecnico, amava la sua isola e la propagandava con passione contagiosa. Andammo, pur con qualche preoccupazione, per l’età delle figlie, e anche per il viaggio: in auto da Napoli a Brindisi, partenza di sera con il traghetto e arrivo nel pomeriggio del giorno dopo a Sami, da qui in auto a Lixouri da Maria. Era l’estate del 1986. E da allora, per quanto l’abbia girata, la Grecia per me è quell’isola.

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(La spiaggia di Petani        foto di Matteo Cosenza)

 Allora fu una scoperta. Metti anche che ancora non era una meta molto gettonata - più facile raggiungere Corfù e più raffinato puntare sulla lontana Santorini - e aggiungi che era luglio, ci volle un attimo perché mi entrasse nel cuore. Il ritmo prima di tutto. Lo spazio, così vasto e inedito per uno con un ramo familiare ischitano. La natura, aspra fino suscitare il panico e dolce da intenerire. Il mare poi, e che ne parliamo a fare! La cucina, a più tardi. La gente, uno sguardo, una parola e l’amicizia. E soprattutto, non sembri un accessorio del “viaggio”, la storia comune, che fino a quel momento non mi era così chiara, e del resto ci volle, qualche decennio dopo, un nostro presidente della Repubblica, Ciampi, a ricordarci che quell’isola era stata tragicamente un pezzo del nostro Paese. Giorno dopo giorno mi rendevo conto di tutto questo, ne trovavo tracce dappertutto, vi ero dentro, immerso e attraversato da un senso di benessere, di pace, di serenità.

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(Chiesetta a Cefalonia       foto di Matteo Cosenza)

Fummo fortunati. La nostra casa era, come dire, un po’ fuori mano, dall’altro lato della baia di Argostoli, al centro della quale i tedeschi con la dinamite avevano fatto affondare una nave con migliaia di italiani a bordo. Stavamo a Lixouri, lontano dal centro, in campagna dove Vagheli e Maria Varsaki avevano trasformato il loro giardino costruendo delle casette semplici di un piano. Vivevano lì con le figlie Eleni e Sulla. E c’erano il nonno e la nonna.

Proprio con il nonno entrai in quella storia. Persona dolcissima, aveva un ricordo indelebile di quello che era accaduto in quei giorni di caccia feroce ai soldati italiani, ne parlava, con un dolore neanche attenuato dal tempo, come se fosse accaduto il giorno prima. Lui in greco, io in italiano, ma, tra gesti e parole, raramente mi sono compreso così bene con una persona. E noi, tutti gli ospiti e loro, trascorrevamo ore piacevoli nel giardino. Si cenava con il pesce pescato copiosamente da alcuni napoletani esperti del ramo – i greci delle isole, si sa, erano più pastori che pescatori –, con fresche insalate di pomodori, cetrioli e feta, con il maialino o l’agnello cotti sulla brace per ore mentre festosamente tutti i nostri bambini a turno giravano l’asta di ferro.

Il nonno mi è rimasto caro per più di un motivo. Intanto, mi faceva sorridere perché ad ogni pietanza gridava “Bravo Matteo”, che un po’ dispiaceva a chi le aveva cucinate, mentre io avevo solo il compito dei dolci. L’anno dopo, l’agosto fu torrido e in Grecia il caldo provocò molti morti. Perché lo ricordo? Un attimo di pazienza.

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(Tramonto a Cefalonia         foto di Matteo Cosenza)

Mi venne l’idea di fare un babà. Intanto non trovavo il recipiente adatto: ce ne voleva uno grande, visto che la sera eravamo sempre sulla trentina di persone. Me lo inventai. Aiutandomi con la carta argentata e con del filo di ferro feci diventare altissimo un largo ruoto a ciambella. Poi mi serviva il lievito di birra. Girai tutti i negozi senza fortuna, infine andai in un panificio e riuscii a farmene dare un po’: era il miglior “magiábýras” che abbia mai trovato. Primo impasto, poi, immaginando che ci volesse un po’ di tempo per la crescita, dissi a mia moglie che andavo in paese per comprare delle cose, che avrei fatto presto e che soprattutto controllasse che il babà non tracimasse dal ruoto. Quando tornai, dal vialetto vidi mia moglie che dal balcone mi invitava a correre perché il babà, per effetto del caldo di cui dicevo, stava per fare una brutta fine.

Fu incredibile quel dolce, non so quanti litri di bagna assorbì, rammento solo che quando lo portai sul tavolo sotto il pergolato era enorme e giustificava la “scafarea” con la panna fresca appena montata che degnamente l’avrebbe accompagnato. Quella volta il nonno poté legittimamente, e senza che nessuno se ne adontasse, esultare: “Bravo Matteo!”.Il nonno, dicevo. Si finiva alle ore piccole con i canti greci. E poi c’erano momenti che facevano tremare vene e polsi, quando lui cantava in un dolce e struggente italiano, le nostre canzoni, quelle che aveva sentito dai nostri soldati, e ora che lui non c’è più sento ancora risuonare parola per parola la sua “Piemontesina bella…”.

Mi capitò anche un’esibizione imprevista. Nel piccolo borgo di Agia Thekla, una domenica fu dedicata al ricordo delle vittime della guerra. Nel corso di molti anni gli abitanti avevano raccolto dei soldi per costruire un monumento. Nikoletta, che era nata in quel paesino appollaiato sul crinale della montagna che separa Lixouri dalla spiaggia di Petani, volle che io portassi un messaggio degli italiani, in quel caso,così disse, “della stampa italiana”. E così mi trovai a parlare a quei fratelli greci che poi, immaginando chissà chi io fossi, mi fecero festa mentre lungo la strada le donne offrivano i loro dolci, quelli usati nei giorni dei defunti, in un clima che era di riflessione triste e di gioiosa fiducia nel futuro.

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(La presunta tomba di Ulisse      foto di Matteo Cosenza)

Pensavo addirittura di comprare una casa, ma poi l’epilogo triste dell’ultimo anno quasi ci fece rimuovere l’idea di tornare lì. Fu nel finire di agosto del 1988. La sera, come ogni sera, eravamo andati davanti alla Posta dove c’era la cabina telefonica e, dopo la fila, si telefonava a casa. Quella di mia moglie fu una telefonata tragica. La madre stava morendo. In tutta fretta, data l’ora, fu accompagnata al porto di Sami per imbarcarsi sul traghetto di mezzanotte. Io e le figlie restammo per partire due giorni dopo. E lei, tra nave e autostop, riuscì ad arrivare all’ospedale di Sorrento per raccogliere l’ultimo respiro della mamma.

Quattro anni fa ci siamo decisi e siamo andati. Sempre da Maria e ci siamo tornati anche l’anno dopo. Con tanta gente in più, anche molto cemento, però ci vuole un bel po’, e speriamo di no, per rovinare il fascino della spiaggia più bella della Grecia, Myrtos, le oasi della zona di Fiskardo, le pietruzze ocra dell’arenile sterminato di Skala, le meraviglie del litorale a sud di Argostoli o sulla costa orientale, la baia mozzafiato e quasi esclusiva di Atheras, il lago di Melissani,  e per cacciare dal porto del capoluogo le tartarughe marine che giocano con i turisti. La mattina inumidisci in bocca il dito pollice e lo fai ruotare nell’aria, capisci da dove soffia il vento e decidi che la tua spiaggia, mare calmo e godibilità totale, è dal lato opposto. La distanza non è un problema perché attraversi territori che ogni volta ti sembrano nuovi, sei sempre un turista in servizio permanente effettivo. Devi solo stare attento, specie se soffri di vertigini, quando percorri strade strette, piene di sassi fatti precipitare dalle capre o, evento non raro, di qualcuna di loro che sta attraversando, e soprattutto a precipizio sul mare che sta qualche centinaio di metri sotto. Ma anche questo è parte dell’Eden.

Il viaggio, come è noto, è anche partire e restare. Una volta lì ci siamo resi conto che non eravamo mai partiti. La sera seduti nella piazza di Lixouri davanti alla secolare pasticceria Mavroidis ci siamo deliziati di nuovo con la migliore Cioccolatina dell’isola, esattamente come quella di trent’anni prima. E quando ci sono stato l’ultima volta, nell’ottobre 2017, è successa una di quelle cose imprevedibili che solo un viaggio, fisico o immaginato che sia, può liberare dal suo scrigno.

Eravamo a Poros, in un bar del lungomare in compagnia di un ouzo fresco. Postai su Facebook una foto. Dopo pochi minuti mi arrivò un messaggio: «Visto che ti trovi là, vedi che lì vicino c’è quella che si vuole sia la tomba di Ulisse. E soprattutto quando torni portami una bottiglia di Robola». Firmato Luigi Necco. Il giornalista napoletano, noto per la sua sciarpa rossa a “Novantesimo minuto”, per il suo lavoro da cronista e soprattutto grande uomo di cultura. Per di più mio vicino di pianerottolo: per entrare e uscire di casa doveva passare per il cortile comune e davanti al balcone della mia cucina.

Andammo e trovammo chiuso. Due giorni dopo la visitammo. Luigi mi aveva invitato a trovare una cosa importante senza dirmi di più. Guardammo con attenzione e capimmo poco, mia moglie pensò che forse la struttura del vano dopo l’ingresso poteva rendere plausibile l’ipotesi che Ulisse fosse davvero stato sepolto lì e non, come è certo, nella sua Itaca che è lì di fronte.

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(L'autore, al centro, con Enzo Ciaccio e Luigi Necco      foto di Matteo Cosenza)

La Robola andammo a comprarla direttamente alla cantina dalle parti del Monastero di Agios Gerasimos e la bevemmo in una cena a casa mia alla quale fu presente anche un altro nostro caro collega, Enzo Ciaccio. Il pranzo, per quel che mi dissero, fu all’altezza del fresco vino di Cefalonia, la paella e le alici indorate e fritte di Anna e per finire un mio dolce ai sette cioccolati non lasciarono indifferenti i nostri ospiti. Ma il piatto migliore, che durò fino alle ore piccole, fu… Luigi.

 La sua era un’arte del raccontare e poteva parlare in maniera approfondita per ore e di tutto e non ti saresti mai stancato, poi sull’archeologia avrebbe potuto tenere testa a Schliemann. Ci raccontò della sua lunga ricerca del “Tesoro di Priamo”, che trovò a Mosca e che raccontò in un libro, di aneddoti e altre stupende favole narrative, e poi ci disse che sulla tomba di Ulisse manteneva il segreto, che ne stava scrivendo e che solo allora avrebbe svelato il mistero.

Il giorno dopo mi telefonò Emanuele Giacoia, altra “voce” storica del giornalismo e uomo di vasta cultura anche archeologica pure lui, che era con Necco davanti allo stadio di Avellino quando la camorra lo ferì in un agguato. Concordammo che avrei organizzato una cena per farli incontrare dopo tanti anni. Sarebbe stato un evento da incorniciare, il dialogo tra due “voci”memorabili. Non l’abbiamo fatta, quella cena. Luigi se ne andò quattro mesi dopo. E io ora che ne scrivo penso a che cosa sarebbe la vita senza il viaggio, senza la conoscenza, senza la “mente colorata” di Ulisse.

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