Bagna cauda tra esplorazione e sballo gourmet  

di ANDREA ALOI*

 Questa appendice alle note pubblicate giorni fa da Foglieviaggi sul piemontese Roero, terra di vigne e colline, vi si collega per più d’una ragione. Si parlerà di bagna cauda, cibo conviviale piemontese, e di un fantasmagorico viaggio cultural-gustativo sconosciuto a troppi. Ma prima una confessione: con gli anni ho sviluppato una forte dipendenza dalla suprema confusione di aglio, olio e acciughe. Acciughe sotto sale, quiescenti in latte da un chilo o più a colori vivaci, ma pronte a rinascere, arabe fenici della papilla ansiosa, nella salsa calda, la bagna cauda, che le consacra con olio e aglio. Olio extravergine d’oliva non eccessivamente forte (quindi niente Toscana) nella parte di co-protagonista anni addietro recitata dall’olio di noci, che qualche filologo ancora cita debitamente aggiungendo alla bagna in cottura un paio di rimembranti gherigli.

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Storia, quindi. Di un mangiare deciso e vero, contadino, che celebrava la fine della vendemmia e schiudeva le porte verso l’inverno, evocato dal richiamo degli acciugai cuneesi della Val Maira. Messi tra parentesi i lavori nei campi, scendevano in Liguria a rifornirsi di acciughe già sistemate nel sale per poi risalire a battere campagne e città soprattutto del Piemonte. Era una via di commercio antica. Da una terra fertile e ricca (provate a passare da Cavallermaggiore, tanto per fare un esempio) arrivavano i manzi e i formaggi, dalla striscia pietrosa in faccia al mare montavano pesci conservati e olio. E ci furono epoche di mille gabelle, come nel Seicento dei marchesato di Saluzzo, Ceva e Monferrato, della contea di Asti, quando il sale era così prezioso da venir contrabbandato nascosto in botti sotto uno strato d’acciughe. Provvidenziale. La storia è un fiume con mille rivoli e questa in particolare l’ha raccontata bene assai Nico Orengo in un libretto prezioso del ‘97, “Il salto dell’acciuga”, un titolo che spiega tutto.

Con rammarico segnaliamo (e lestamente sorvoliamo) come della bagna esistano anche versioni da pausa ufficio senz’aglio: un crimine, comprensibile e però non giustificabile.

E dopo l’olio, passiamo, appunto, al salubre bulbo delle liliacee dalle mille virtù. L’aglio che cresce a Vessalico nell’Imperiese è profumato e dolce ma è complesso reperirlo e ha spicchi piccoli per cui pulirlo risulta, direbbe il commissario Montalbano, una camurrìa. I cultori magnificano l’aglio francese di Cap d’Ail, poco oltre il confine di Ventimiglia, e vale l’obiezione precedente, non è che scendi al mercato rionale ed è lì, appeso in belle trecce. Gira talvolta da noi l’aglio rosa di Lautrec, nel dipartimento del Tarn, zona occitana vicino a Tolosa e va consigliato, è tosto e aromatico, carico di oli essenziali, comunque - evitati accuratamente i prodotti cinesi - per una bagna cauda comme il faut puntate tranquilli sull’aglio di Voghiera nel Ferrarese, di casa nei supermercati del Nord. In alternativa saggiatene per prova altre qualità, al Sud ce ne saranno sicuramente di pregevoli, basta che sia maturo con il germoglio interno ben formato e facilmente eliminabile, operazione obbligatoria per la sua digeribilità.

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Le acciughe. Da alcuni anni il must sono quelle del Cantabrico, davanti a Bilbao. Polpose, a carne rosseggiante e lungo filetto, morbide al palato, hanno una buona resa una volta pulite ma costano un botto. Abbiamo in casa un’alternativa eccellente, le acciughe sotto sale di Sciacca nell’Agrigentino, tra Eraclea Minoa e Selinunte: più piccole, altrettanto profumate, a carne più scuretta. Oltretutto a baschi e spagnoli i giusti modi per accomodarle li abbiamo insegnati noi, quindi… Quindi sotto con la pulizia degli amabili pescetti conservati. Via la lisca centrale e con l‘acqua a filo una bella ripulita del filetto, via pinnette e argento di superficie. Eccole lì, impilate a dovere. Sarete a cena in quattro e avete appena condotto alla ragione 500 grammi di acciughe sotto sale, una dose giusta per fare della bagna cauda il piatto principale, se volete un antipastino tagliate questa e le successive dosi a metà (che dolore). Pesate i filetti puliti: 250 grammi? Vi è andata di lusso, da qualche anno le acciughe sono più magrette, purtroppo va così. È d’obbligo ricordare che in molte famiglie i filetti puliti vengono messi a giacere nel vino rosso prima della cottura. Personalmente preferisco non sciupare il nettare.

Secondo gli ammaestramenti della cuoca di casa zia Isolina, cuneese di Saliceto, Alta Langa ai confini con la Liguria, la sera prima avrete messo a dimora gli spicchi d’aglio privati del germe in una scodella di latte intero. Quantità: il 40 per cento del peso stimato dei filetti. Immaginando ottimisticamente di ricavare da mezzo chilo di prodotto salato 250 grammi di acciughe pulite, fanno un bel 100 grammi di aglio che verrà scolato e risciacquato il giorno successivo (il latte, graveolente anzi che no, lo butterete senza rimpianti). La procedura ha il compito e il merito di addomesticarlo, lo stomaco ringrazia, garantito. E qui casca la cottura. Pentola in terracotta sul fornello e si va. Nell’Astigiano mettono a “fondere” in abbondante olio - che MAI dovrà friggere - gli spicchi d’aglio sbucciati e tagliati così come sono, germe compreso. Gira e gira e schiaccia con cucchiaio di legno e l’aglio dopo un po’ si sfalda. A seguire le acciughe. Le divine si sciolgono subito al calore. Avanti con la cottura per 40 minuti e ci siamo. È una bagna cauda tosta, non consigliabile ai neofiti e che solleva qualche dubbio sulla capacità di un corpo umano mediamente sano di metabolizzarla in tempi ragionevoli.

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Rewind. Secondo il rito cuneese (il mio preferito) nell’olio caldo si tuffano prima le acciughe, ecco si sono sciolte, sotto allora con l’aglio ammansito tritato finemente e gira-gira col cucchiaio di legno, aggiungendo, se del caso, olio, sempre e comunque abbondante. Passata la mezzora, se le acciughe avranno lischette tenaci, le troverete in un groppo al centro della terracotta e le tirerete via. È il momento di versare nella bagna un mezzo bicchiere di latte intero, che la addolcirà soavemente: l’intingolo sembrerà ammollarsi, abbiate fede e proseguite a girare col cucchiaio, tornerà denso come prima, solo un filo più chiaro. Dieci minuti e ci siete. Nel Torinese c’è chi pulisce l’aglio da buccia e germe e lo manda a bollore nel latte per qualche minuto: più tempo passerà, più “frenato” sarà l’aglio. Due-tre minuti vanno bene. E di varianti ce ne sono tante altre, in certe sette ereticali amano aggiungere alla bagna uno zinzino di panna, pratica severamente condannata dalla Convenzione di Ginevra. Una certezza: la casa sarà ormai avviluppata in una coltre odorosa che scatenerà la salivazione.

La terracotta con la bagna sta riposando, è il momento delle verdure, crude e cotte. Imparerete strada facendo a pulirle e a tagliarle in modi acconci alla pucciata. Unica avvertenza: cardo (gobbo e maturato nella paglia, in Romagna lo mettono sotto sabbia: geniale) e carciofi (non le mammole, bensì con spina, buoni i sardi, per quelli di Albenga occorre un mutuo) una volta puliti e tagliati in quarti devono attendere in acqua acidulata con limone il momento della cena. Seguono i topinambur, tuberi della margherita gialla, da consumare con juicio: possono causare gonfiori intestinali che sempre hanno sfogo a tradimento - passata un’ora o giù di lì - nei momenti meno opportuni, ma che meraviglioso incontro tra il loro freddo bianco scrocchiante e la bagna cauda. Poi, in lieta sfilata, cespi di insalata belga, radicchio rosso di Chioggia, foglie di cavolo cappuccio, cavolfiore a tocchi (sì, crudo), peperoni (splendido il quadrato d’Asti, piacione quello lasciato a macerare sotto aceto e graspo d’uva, in ogni caso no ai peperoni olandesi piccoli, ce ne sono di siciliani ottimi, in variante gialla, verde e rossa). Avete visto? La tavola sta colorandosi, le verdure disposte nelle scodellone sembrano un ikebana. E mancano ancora le verdure cotte: zucca, cipolla, fagiolini, barbabietola, patate. Arancione, verde oliva, scarlatto scuro, giallo tenue. E per finire uova sode, una per commensale. Acciuga e uovo, unione mistica.

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Il tempo per combinare il tutto? Ne serve molto, almeno un paio d’ore. Prendetevelo, sarà ben speso.  

La bagna bolle, la bagna arriva e si accomoda a centro tavola, ciascun commensale avrà il suo fornelletto (fujot) per tener calda la salsa di cui si sarà servito con un cucchiaio, altrimenti sotto con normali ciotole e un solo fornelletto più grande in mezzo. Si cominci. La bazza si unge, si mugola di piacere, barbaresco, barbera, dolcetto piovono dai bicchieri alla gola. Etica ed etichetta: nonostante le possibili ustioni a lingua o palato, ogni boccone incrementa l’appetito e le persone meno sorvegliate tendono a servirsi di molta bagna e poco olio. Ciò non è bene per l’equa ripartizione della preziosa salsa, identifica inequivocabilmente come parvenu e diminuisce nell’avido il piacere, dato anche dalla untuosità dell’olio caldo a contatto con il freddo verdurame.

Meglio non esagerare, c’è però chi, sterminata la bagna, prosegue con un carpaccio di fassona al bagnetto verde o una kermesse di formaggi, dal Castelmagno a un lussureggiante gorgonzola firmato Croce. Dare allora la colpa all’aglio, in caso di imbarazzi digestivi, non sarà leale.

Bagna cauda. Come lo snorkeling nel Mar Rosso e un giro in barca tra gli isolotti croati, anche un piatto è un’esperienza. E l’anno dopo fin da settembre vi chiederanno: “Ma quest’anno la rifai?”.


*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 


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